RifLeggendo

L'autore racconta cosa c'è nel suo cuore e nella sua memoria, l'editore vende il racconto nel modo che gli sembra più adatto a quella storia o a quel pubblico, il lettore percepisce la storia secondo ciò che ha nel cuore e nella memoria. A volte lettore - editore - autore si incontrano per parlare del libro che non appartiene più a nessuno ma ha una vita sua. Mille riflessioni possono nascere dalla stessa lettura, uguali e contrastanti per questo le chiamo RifLetture che sono altro dalle recensioni. Chi recensisce giudica, io non sono all'altezza di giudicare ma sicuramente posso riflettere nelle letture: RifLeggendo condivido qui.

martedì 8 ottobre 2013

Mauro Corona - Vajont: quelli del dopo

Ho già ricordato a inizio anno del Vajont ma oggi è proprio l'anniversario e ho deciso di parlarne ancora. Ne parlo attraverso il cuore, gli occhi e le parole di una persona che il Vajont lo ha vissuto. Mauro Corona nasce a Erto nel 1950, è un burbero con una testa intelligente, è uno scultore e un uomo che racconta verità!
Corona ha scritto un libro: Vajont: quelli del giorno dopo. Una pièce teatrale molto cruda. Non ha inventato e non ha fantasticato. In questo libro fa parlare due volti di una stessa medaglia: coloro che hanno vissuto il Vajont e che quel giorno hanno perso tutto: casa, lavoro, famiglia ... anche le mutande; e coloro che nel Vajont ci sono arrivati dopo per aiutare, per fare soldi, chi lo sa? Lui li fa parlare senza giudicarli. Lascia che ha giudicarsi siano loro stessi nel dialogo, nella pièce teatrale che purtroppo non mi è capitato di vedere rappresentata, ma qualcuno l'ha rappresentata?
Il libro inizia così:

"Alle porte dell'autunno ua notte di tragedia era calata sulle case del paese addormentato dalle fatiche e tra le vie dove per secoli aveva pulsato il cuore della vecchia Erto. Fu come un colpo di falce. Il 9 ottobre 1963 alle 22.45 duemila persone entravano nel nulla per ambizione e interessi altrui." [...]

In questo incipit non solo si descrive una tragedia che per molti è meglio dimenticare e che addirittura ci si vergogna un po' a guadagnarci sopra (visti i tempi e le facce sfrontate dei miliardari di oggi mi aspettavo più marketing intorno alla cosa, ma evidentemente l'hanno fatta proprio grossa ed è meglio non parlarne). Cosa è Erto oggi? Il ricordo di un paese che non esiste più? Con gente che non ci vive più? con fantasmi e polvere? Oppure un paese rinnovato da gente nuova, dalla ricostruzione di una catastrofe che sta diventando un ricordo e che ora sta rinascendo con gente nuova?

Io ne parlo perché da piccola ricordo che mio padre mi raccontava che lui è stato là: era militare e lo portarono insieme a tanti altri là, a raccogliere i morti, erano troppi per essere contati ed erano troppi per credere addirittura che fosse vero ... racconta mio padre ... era la guerra!!
Da grande mi sono innamorata di un uomo che ha radici da quelle parti e che all'epoca era già nato. Lui, mio marito Alessandro, ama la montagna (tanto che un dì con altre tre persone si è andato a fare una passeggiatina di 15 giorni in Patagonia, nello Hielo Continentale Sur, al ghiacciaio Uppsala ... a piedi!). Lui è cresciuto tra Roma e Pecol (un paesino nella Valle Zoldana, sull'altro lato di Longarone) e naturalmente anche lui mi ha parlato diverse volte di questa tragedia. Io sono giovane rispetto a questa tragedia e l'ho solo sentita raccontare. Mi ha impressionato come in un attimo l'avidità dell'uomo possa spazzare via tutto e mi sembra che sia proprio questo che sta succedendo alla terra intera. Il Vajont, come altre tragedie, non hanno insegnato nulla. Pochi uomini ma buoni, hanno il dominio della terra e sono talmente avidi da non accorgersi di quello che stanno facendo, accumulare, accumulare e accumulare questo è il loro unico interesse. Ma niente commenti patetici. Leggendo questo libro ho l'impressione di ascoltare due mondi paralleli, chiusi in due spazi temporali diversi, che si fronteggiano. Uno chiuso nel passato della tragedia, fermo là, come se nemmeno un giorno fosse passato da allora, come se negli occhi di queste persone esistente un solo momento eterno: il 9 ottobre 1963 alle 22.45. L'altro è il tempo evoluto, di chi è andato oltre, o forse arrivato dopo. Il tempo di chi racconta qualcosa in ogni dettaglio ma che non lo ha impresso negli occhi. Il tempo del futuro, che non conosce passato se non nei racconti di chi li fa e di chi li ascolta.
L'autore di questo libro, tanto è preciso nel suo reportage teatrale, ci avverte:

"Questo testo è il prodotto di un paziente ascoltare discussioni e affermazioni, debitamente registrate. E' solo storia ertana, gli altri paesi coinvolti nella catastrofe non c'entrano"

Cito due parti separate dell'opera per farvi capire i toni con cui la riporta e la presenta, per il resto vi auguro di leggerlo e di non dimenticare, anche se non c'eravate, anche se non avete avuto morti:

[...] Jan, quasi con ira: Sta' zitto tu. Cosa parli, non hai avuto morti, nel '63 non eri neanche nato. Ma io non ho più nessuno, né genitori né fratelli. Cinque, tutti giù, nella melma e nemmeno trovati. Neanche una tomba per piangere, niente. E dovrei stare zitto! (poi rivolto ancora verso la foto) Maledetti, che Dio vi maledica in eterno. [...]

[...] L'oste interviene deciso: Paolini ha fatto un miracolo, un lavoro eccezionale, e se oggi viene gente a vedere il paese la domenica, e pure il sabato e quasi tutti i giorni, è merito suo.  Ho potuto riaprire l'osteria grazie a lui. Prima qui non passava anima viva. Potevi dormire sulla strada. Adesso viene gente e mangia e beve, e si può campare. Merito suo e di quell'altro che ha fatto il film, quello ... come si chiama ... ?
Primo avventore, senza alzare gli occhi dal bicchiere: Martinelli si chiama, Renzo Martinelli. [...]

Il resto lo lascio a voi, direi che entro dicembre vale la pena leggere questo libro uscito ormai nel 2006. Capisco che a volte la brutalità fa paura ma a volte aiuta anche a capire e a guardare il mondo indossando occhiali diversi.

3 commenti:

  1. Volevo dire che questo post è stato messo il 9 ottobre ma non so perché non mi cambia data. Migliorerò presto! Grazie a tutti.

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  2. Sono passati tanti anni, quasi 50, ero piccolino ma la memoria è ancora viva. E come non lo potrebbe essere difronte a quello che mi è apparso quando avevo solo 5 anni?
    Tutte le estati la mia famiglia mi portava in vacanza in Val Zoldana, a Pecol.
    Era l’estate del 1964 e viaggiavamo di notte in cuccetta, sul Roma – Calalzo. Alle prime luci dell’alba il controllore veniva a svegliarci, smontava le cuccette e noi, io e mio fratello, ci affacciavamo curiosi dal finestrino a scrutare il paesaggio. Quell’anno era diverso, c’era stata “l’alluvione del Vajont” avevamo sentito ma, probabilmente, non capito bene di cosa si trattasse.
    Ad un certo punto la linea ferroviaria segue il letto del Piave, un fiume, ma non c’era più il fiume. Mi ricordo come fosse ora che stavo col naso appiccicato al vetro e guardavo quella massa d’acqua scura e piena di tronchi che scorreva lentamente come altrettanto lentamente avanzava il treno su quel binario appena ristabilito e forse ancora malfermo. Si andava avanti così fino alla stazione di Longarone. Stazione… una casupola messa in piedi in poco tempo con dentro giusto un bar per dare ristoro ai viaggiatori e ai pochi superstiti di quella tragedia. Lì ci aspettava appunto uno dei superstiti, salvato dal suo lavoro e, soprattutto, dal suo istinto “animale” che gli ha fatto comprendere appena in tempo quello che stava per succedere. Faceva il tassista portando villeggianti su e giù per le valli circostanti. E fu proprio questo che l’ha salvato, lui e la sua famiglia. Ci raccontò che erano giorni che incrociava animali selvatici che come impazziti gli attraversavano la strada. Nelle stalle le mucche strappavano le catene. Quella sera arrivato a casa prese tutto quello che poteva e se ne andò a rifugiarsi in montagna e così si salvò. Lo scenario che ci apparve era apocalittico, si faceva fatica ad immaginare che lì c’era una città piena di vita, era tutto raso al suolo tranne la parte più alta e qualche timido segno di ricostruzione. Dalle parole del nostro amico tassista traspariva tutto l’orrore di quella notte, il dolore e la rabbia dei long aronesi.
    Oggi a distanza di tanti anni e quando posso, torno su alla diga e vedere quella ferita della montagna, quella collina che ora ha preso il posto del lago e faccio fatica ad immaginare quello che può essere stato quella notte e quello che può aver spinto l’uomo a sfidare la natura sapendo che quello che poi è successo non solo era prevedibile ma forse già previsto e nonostante ciò non ci si è fermati.

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